No War - Palazzo Savelli sede del Comune di Rocca Priora (Roma)

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martedì 17 dicembre 2019

All’Adunanza plenaria la verifica d’ufficio e in sede contenziosa dei presupposti per l’accesso generalizzato se non sussistono i presupposti per l’accesso ordinario

E’ rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se sia configurabile, o meno, in capo all’operatore economico, utilmente collocato nella graduatoria dei concorrenti, determinata all’esito della procedura di evidenza pubblica per la scelta del contraente, la titolarità di un interesse giuridicamente protetto, ai sensi dell’art. 22, l. n. 241 del 1990, ad avere accesso agli atti della fase esecutiva delle prestazioni, in vista della eventuale sollecitazione del potere dell’amministrazione di provocare la risoluzione per inadempimento dell’appaltatore e il conseguente interpello per il nuovo affidamento del contratto, secondo le regole dello scorrimento della graduatoria (1).
E’ rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se la disciplina dell’accesso civico generalizzato di cui al d.lgs. n. 33 del 2013, come modificato dal d.lgs. n. 97 del 2016, sia applicabile, in tutto o in parte, in relazione ai documenti relativi alle attività delle amministrazioni disciplinate dal codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di inerenti al procedimento di evidenza pubblica e alla successiva fase esecutiva, ferme restando le limitazioni ed esclusioni oggettive previste dallo stesso codice (2).
E’ rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se, in presenza di un’istanza di accesso ai documenti espressamente motivata con esclusivo riferimento alla disciplina generale di cui alla l. n. 241 del 1990, o ai suoi elementi sostanziali, l’amministrazione, una volta accertata la carenza del necessario presupposto legittimante della titolarità di un interesse differenziato in capo al richiedente, ai sensi dell’art. 22, l. n. 241 del 1990, sia comunque tenuta ad accogliere la richiesta, qualora sussistano le condizioni dell’accesso civico generalizzato di cui al d.lgs. n. 33 del 2013; se, di conseguenza, il giudice, in sede di esame del ricorso avverso il diniego di una istanza di accesso motivata con riferimento alla disciplina ordinaria di cui alla l. n. 241 del 1990 o ai suoi presupposti sostanziali, abbia il potere-dovere di accertare la sussistenza del diritto del richiedente, secondo i più ampi parametri di legittimazione attiva stabiliti dalla disciplina dell’accesso civico generalizzato (3).
Sono queste le questioni rimesse all'Adunanza Plenaria dal Consiglio di Stato, sez. III, con ordinanza n. 8501 del 16 dicembre 2019.
(1) Ha chiarito la Sezione che secondo l’interpretazione invalsa in ordine ai presupposti legittimanti l’accesso ordinario, la situazione giuridica suscettibile di legittimare l’istanza ostensiva, sia nella sua configurazione “finale” (nella specie, connessa all’affidamento del servizio a seguito dello scioglimento del rapporto contrattuale con l’impresa aggiudicataria), sia in quella “procedimentale” (intesa, nella fattispecie in esame, alla sollecitazione ed al controllo delle modalità di esercizio da parte della P.A. del suo potere di risoluzione del contratto con l’aggiudicataria e di “interpello” della seconda classificata), deve quantomeno correlarsi ad una attuale e concreta prospettazione dei suoi presupposti costitutivi (relativi, nella specie, al “grave inadempimento” dell’impresa affidataria): presupposti che, essendo finalizzati a conferire i necessari requisiti di “concretezza” ed “attualità” all’interesse legittimante, devono preesistere all’istanza di accesso (proprio perché si tratta di verificarne, dal punto di vista dell’Amministrazione destinataria dell’istanza e in via succedanea nella sede giudiziale, la ammissibilità e fondatezza), e non (eventualmente) emergere successivamente al soddisfacimento dell’azionato interesse conoscitivo.
Nella suindicata direzione interpretativa milita il precedente di questo Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3398 dell’11 giugno 2012, laddove statuisce nel senso che “nel caso di specie, l’interesse azionato che fonderebbe l’accesso non risulta concreto, poiché non ne viene precisata e specificata la natura; la circostanza di essere il secondo graduato nella procedura di gara per l’affidamento del contratto, non giustifica certo una richiesta generalizzata di accesso di tutti gli atti attinenti alla fase esecutiva (…). Il Collegio deve, conclusivamente, precisare che, con riferimento agli atti attinenti alla fase esecutiva del rapporto, manca in radice un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso, come correttamente ha evidenziato il TAR, in palese assenza di una prospettiva di risoluzione del rapporto e in assenza di un interesse al subentro, peraltro neppure rappresentabile in termini di certezza (trattandosi di facoltà discrezionale rimessa alla stazione appaltante stessa); ciò esclude la configurabilità di un interesse della seconda classificata a conoscere la correttezza o meno dell'esecuzione contrattuale da parte dell'aggiudicatario della gara, attesa la sua estraneità al rapporto contrattuale in essere e ai possibili esiti della sua esecuzione (ex art. 1372 c.c.)”. Sull’opposto versante interpretativo, tuttavia, non può farsi a meno di evidenziare che la seconda classificata, proprio in virtù di tale posizione, non è assimilabile ad un quisque de populo, ai fini dell’attivazione dell’iniziativa ostensiva: quella posizione, infatti, funge da presupposto attributivo di un “fascio” di situazioni giuridiche, di carattere oppositivo o sollecitatorio, finalizzate alla salvaguardia di un interesse tutt’altro che emulativo, in quanto radicato sulla valida – anche se non pienamente satisfattiva – partecipazione alla gara.

In siffatto contesto, ed anche in considerazione dell’idoneità dell’accesso ad integrare un autonomo “bene della vita”, distinto dalle utilità conseguibili mediante le iniziative attivabili a seguito del suo utile esperimento, l’interesse dell’impresa seconda classificata ad avere accesso agli atti della fase esecutiva, in vista della sollecitazione dell’eventuale potere risolutorio e di quello consequenziale di “interpello” della stazione appaltante, potrebbe non presentare tratti significativamente divergenti, anche ai fini della sua giuridica tutelabilità, rispetto all’incontestabile interesse ostensivo della medesima concorrente a conoscere i documenti relativi all’offerta presentata dalla aggiudicataria, indipendentemente dalla già acquisita conoscenza dei vizi del procedimento di gara, in vista della eventuale impugnazione del provvedimento di aggiudicazione: in entrambi i casi perseguendosi l’interesse al subentro nella posizione di affidataria della commessa e distinguendosi essi solo in relazione alla natura del potere di sostituzione della prima graduata spettante all’Amministrazione, siccome vincolato in un caso e discrezionale nell’altro.
(2) Ha chiarito la Sezione che qualora si ritenesse che il concorrente secondo graduato sia privo di un interesse differenziato che lo legittima all’esercizio del diritto di accesso ordinario, ai sensi della legge n. 241/1990, nei riguardi degli atti afferenti alla fase esecutiva dell’appalto, diventerebbe necessario affrontare una seconda questione, anch’essa di evidente rilievo generale, concernente l’applicabilità del nuovo istituto dell’accesso civico generalizzato, disciplinato dall’art. 5, d.lgs. n. 33 del 2013, come novellato dal d.lvo n. 97 del 2016, nella materia dei contratti pubblici, tanto nella fase di scelta del contraente, quanto nella successiva fase di esecuzione delle prestazioni.
Il diritto di accesso civico generalizzato, infatti, si caratterizza proprio perché del tutto sganciato dal collegamento con una posizione giuridica differenziata. L’operatore economico, al pari di qualsiasi altro soggetto, potrebbe esercitare tale diritto anche al semplice scopo di verificare la correttezza dell’operato dell’amministrazione, indipendentemente dall’esigenza di proteggere una particolare situazione giuridica soggettiva.
La Sezione ha ritenuto necessario chiarire se l’amministrazione prima e il giudice dopo abbiano il potere, o il dovere, di riqualificare l’istanza di accesso presentata dal richiedente, secondo i parametri della indifferenziata legittimazione soggettiva attiva dell’accesso civico.
In punto di fatto, la parte appellante, facendo leva sulla sua qualità (differenziata) di impresa partecipante alla gara e collocatasi in seconda posizione nella graduatoria conclusiva, nel perseguimento della suindicata finalità di subentrare all’impresa aggiudicataria nello svolgimento del servizio in oggetto, sembra avere inteso (implicitamente) invocare le pertinenti disposizioni della l. n. 241 del 1990 e non quelle, caratterizzate dal carattere “adespota” dell’interesse legittimante l’accesso, regolatrici del accesso civico (esercitabile, come si è visto, da “chiunque”).
Alla soluzione della questione nel senso del carattere non preclusivo della qualità “differenziata” spesa dalla richiedente l’accesso, ai fini della applicazione (in via subordinata) della normativa in tema di accesso civico, potrebbe indurre, in primo luogo, il rilievo secondo cui compete all’Amministrazione - ed, in seconda battuta, al giudice - inquadrare sub specie iuris la domanda del privato, di cui sia univocamente identificabile il contenuto sostanziale (recte, nella specie, la ragione e l’oggetto della pretesa ostensiva): sì che, anche la presenza nell’istanza di accesso di espresse indicazioni normative (nel caso concreto, comunque, assenti) non potrebbe reputarsi suscettibile di vincolare le sue determinazioni (né, di riflesso, le valutazioni del giudice), dovendo aversi di mira l’obiettivo primario di verificare la fondatezza dell’istanza alla luce del complessivo tessuto ordinamentale, in vista del soddisfacimento dell’interesse ostensivo finale del richiedente (sempre che, naturalmente, l’istanza non contenga univoche indicazioni volitive del richiedente nel senso dell’applicazione dell’una o dell’altra disciplina regolatrice dell’accesso).
Del resto, e con diretto riferimento al caso di specie, la stessa Amministrazione, esprimendosi – con la nota impugnata in primo grado – in senso negativo in ordine alla duplice possibile prospettazione della pretesa ostensiva, ha ritenuto che entrambe fossero enucleabili, senza incorrere in forzature interpretative o qualificatorie, dall’istanza della parte appellante. Lo stesso Ente, pertanto, ha attribuito all’oggetto dell’istanza un contenuto ampio, ovvero comprensivo delle due possibili configurazioni del diritto di accesso, che non potrebbe essere ricusato in sede giudiziale dall’Amministrazione appellata, se non incorrendo nel divieto di venire contra factum proprium (non potendo invece invocarsi in tema di accesso, almeno qualora si ritenga che venga in rilievo una posizione di diritto soggettivo del richiedente, l’irretrattabilità del provvedimento, anche in punto di definizione contenutistica dell’istanza del cittadino, se non nelle forme dell’autotutela).
Peraltro, in via generale, se una domanda del cittadino difetti di un requisito per poter trovare soddisfacimento alla stregua di una determinata fattispecie normativa, o comunque non lo possieda col grado di intensità all’uopo richiesto, ciò non esclude che essa possa essere esaminata secondo una diversa fattispecie tipica, che quel requisito non contempli affatto.
In senso opposto, tuttavia, potrebbe sottolinearsi che l’accesso civico è testualmente finalizzato (cfr. art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013, così come novellato dall'art. 6, comma 1, d.lgs. n. 97 del 25 maggio 2016) allo “scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”: siffatta connotazione finalistica dell’accesso de quo, quindi, impronterebbe “in positivo” l’istituto, inducendo ad escluderne l’applicazione ogniqualvolta il promotore dell’iniziativa ostensiva abbia espressamente fatto valere una legittimazione di carattere “egoistico” (ovvero dichiarato di agire, come nella specie, a tutela di un interesse di carattere individuale).
Ha aggiunto la Sezione che tutta la nuova normativa in materia di trasparenza, del resto, è incentrata sull’idea della massima collaborazione tra l’amministrazione e i cittadini.
La soluzione formalista, che conduca alla reiezione dell’accesso per il mancato richiamo alla disciplina dell’accesso civico si porrebbe in totale contraddizione con questi principi.
D’altro canto, il rigetto non attribuirebbe all’amministrazione alcun concreto vantaggio, poiché il richiedente potrebbe poi reiterare l’istanza, fondandola sul decreto n. 22 del 2013. Questa duplicazione di istanze e procedimenti comporterebbe costi non solo per il privato, ma anche per la stessa amministrazione.
Si deve aggiungere che la “conversione” dell’istanza non sembra comportare pregiudizi per i terzi, dal momento che la disciplina del decreto n. 33 del 2013 risulta, nel suo complesso, decisamente più garantista degli interessi privati che possono essere posti in pericolo dall’esercizio del diritto di accesso.
(3) Ha chiarito la Sezione che qualora l’Adunanza Plenaria dovesse risolvere in senso affermativo il (secondo) quesito sottopostole, assumerebbe infine rilievo dirimente, ai fini dell’esito della controversia, la complessa questione interpretativa inerente alla natura del rapporto tra la disciplina sul accesso civico e la disciplina dell’accesso ordinario, nella specifica materia dell’accesso agli atti relativi alle procedure di evidenza pubblica ed alla fase esecutiva del rapporto contrattuale con l’impresa aggiudicataria.
La giurisprudenza è prevalentemente orientata nel senso di ritenere che i due sistemi normativi coesistano, nell’attuale complessivo regime della trasparenza dell’attività amministrativa, siccome finalizzati a regolare due istituti autonomi, muniti di propri elementi caratterizzanti.
Con recente sentenza (Sez. V, n. 1817 del 20 marzo 2019), il Consiglio di Stato ha infatti chiarito che “si tratta di istituti che - lungi dal configurare un unico diritto - concretano un insieme di sistemi di garanzia, tra loro diversificati, corrispondenti ad altrettanti livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza da parte dei soggetti pubblici (arg. ex art. 5, comma 11 d.lgs. n. 33/2013, che prefigura, scolpendo la salvezza della disciplina codificata dalla l. n. 241/1990) un regime di convivenza di plurime “forme di accesso”). Onde il “sistema” dell’accesso alle informazioni pubbliche si presenta articolato e frastagliato, esibendo una multiformità tipologica, resa ancora più articolata dalla presenza di discipline speciali e settoriali, connotate di proprie peculiarità e specificità”.
Con il medesimo precedente, è stato altresì evidenziato che l’accesso civico o generalizzato, a differenza dell’accesso documentale “classico”, “sotto il profilo oggettivo, realizza il massimo della “estensione” (in quanto riferito non solo a documenti, ma anche a meri dati e anche ad elaborazioni informative), graduata tra l’accesso generico (che legittima l’ostensione di informazioni che già avrebbero dovuto essere, in quanto tali, pubblicate) e l’accesso universale (e “totale”, che non soffre di limitazioni contenutistiche”, mentre “sul piano dell’”intensità”, si tratta – nondimeno – di pretese meno incisive di quelle veicolate dall’accesso documentale (posto che – in presenza di controinteressi rilevanti – lo scrutinio di necessità e proporzionalità appare orientato dalla massimizzazione della tutela della riservatezza e della segretezza, in danno della trasparenza)”.
La suddetta impostazione sistematica, va aggiunto, trova il suo avallo legislativo espresso nel disposto dell’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 33 del 2013, a mente del quale “restano fermi gli obblighi di pubblicazione previsti dal Capo II, nonché le diverse forme di accesso degli interessati previste dal Capo V della l. 7 agosto 1990, n. 241”.
Tuttavia, a fronte della suindicata ricostruzione dei rapporti tra le due discipline cui deve aggiungersi, per quanto di interesse in relazione allo specifico oggetto della controversia, quella speciale di cui all’art. 53 del codice n. 50 del 2016), non può omettersi di menzionarne un’altra, di segno alternativo, secondo la quale il d.lgs. n. 33 del 2013, come novellato dal d.lgs. n. 97 del 2016, avrebbe rivisitato, in chiave liberalizzante, l’unitaria materia dell’accesso, la quale troverebbe quindi la sua attuale regolamentazione in un quadro normativo composito, dal punto di vista della fonte produttiva, che costituirebbe la risultante di un complesso processo di abrogazione-coordinamento-integrazione, affidato essenzialmente all’interprete e frutto dell’”atterraggio” (non compiutamente disciplinato in tutti i suoi risvolti applicativi dal legislatore attraverso appositi sistemi di raccordo) delle nuove (ed, in certo senso, dirompenti) disposizioni di cui al d.lgs. n. 97 del 2016 sul terreno normativo “classico” di cui alla originaria l. n. 241 del 1990.
Secondo tale diverso approccio sistematico, il d.lgs. n. 33 del 2013 non avrebbe esautorato del tutto la previgente l. n. 241 del 1990 né espunto dall’ordinamento le specifiche forme di accesso dalla stessa disciplinate: e tuttavia queste, unitamente all’istituto di nuovo conio dell’accesso civico, concorrerebbero alla configurazione di un diritto unitario, pur connotato dalla molteplicità delle sue concrete manifestazioni attuative, la cui ratio complessiva ed aggiornata riposerebbe nella necessità di apprestare strumenti penetrativi differenziati nelle maglie informative della P.A., al fine di meglio calibrare la forza del principio di trasparenza in ragione della diversità delle situazioni in cui venga concretamente invocato e della eterogeneità degli interessi di volta in volta coinvolti.
Ha ancora chiarito la Sezione che Chiarito che - secondo la già più volte richiamata interpretazione prevalente - l’accesso civico e quello ordinario coesistono nel nostro ordinamento, al pari delle rispettive disposizioni regolatrici, l’art. 5 bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, nel suo rinvio alle “vigenti disposizioni” che presuppongono, ai fini dell’accesso, il rispetto di “specifiche condizioni, modalità e limiti”, non sembra poter essere semplicisticamente inteso come affermativo della necessità di richiedere, ai fini dell’ostensione dei documenti in determinati ambiti/materie (come, appunto, quella delle procedure di evidenza pubblica e della relativa fase esecutiva, in cui vige una disposizione che richiama espressamente la l. n. 241 del 1990), il possesso della situazione legittimante ex art. 22, l. n. 241 del 1990: tale interpretazione, infatti, assume a suo presupposto proprio quella che dovrebbe essere, invece, la conclusione del ragionamento ermeneutico, ovvero la perdurante vigenza, nella predetta materia e quale esclusiva fonte regolatrice dell’accesso ad essa relativo, della l. n. 241 del 1990 (dando essa, in altre parole, per scontato che la suddetta materia, con riferimento all’istituto dell’accesso, sia rimasta immune dall’avvento innovatore del d.lgs. n. 97 del 2016).
Inoltre, l’impossibilità di istituire un immediato “ponte” dispositivo tra l’art. 5 bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013 e l’art. 53, comma 1, scaturisce dalla diversa portata delle due previsioni: l’una intesa a fare salva la vigenza delle disposizioni che prevedono “specifiche condizioni, modalità o limiti” all’accesso, l’altra recante un rinvio generale ed onnicomprensivo alla l. n. 241 del 1990.
Consegue da tale rilievo che disposizioni come l’art. 53, le quali, oltre ad essere previgenti (al d.lgs. n. 97 del 2016), fanno indistinto riferimento alle previsioni in tema di accesso di cui alla l. n. 241 del 1990, non potrebbero essere ricondotte alla clausola di salvezza di cui all’art. 5 bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, scontrandosi il carattere generale del primo, siccome riguardante l’intero complesso normativo di cui alla l. n. 241/1990, ed il carattere analitico del secondo, concernente “specifiche condizioni, modalità o limiti” previsti dalla vigente disciplina in tema di accesso.
Né, del resto, sarebbe plausibile ritenere che la clausola di cui all’art. 5 bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, ed in particolare il rinvio da esso operato alle “specifiche condizioni, modalità o limiti”, si presti ad essere intesa ed applicata in modo differenziato: come relativa, cioè, (anche) alla suindicata limitazione soggettiva, laddove specifiche discipline (come nella specie, per ipotesi, l’art. 53, comma 1) contengano un generico richiamo alla l. n. 241 del 1990, ed estranea ad essa, qualora nessuna previsione vi sia (e si tratti solo di applicare, nel suo proprio ambito operativo, la disciplina in tema di accesso civico).
In tale seconda ipotesi, infatti, la disposizione non potrebbe sicuramente essere invocata, come già rilevato, al fine di affermare la vigenza, anche in riferimento all’accesso civico, di quelle “limitazioni” che, per il loro carattere tipizzante lo specifico istituto dell’accesso ordinario (come quella connessa alla necessaria legittimazione soggettiva del richiedente), non si prestano ad essere trasposte all’altro, a pena di snaturamento dello stesso.
Per concludere, potrebbe anzi ipotizzarsi – rimettendo all’Adunanza Plenaria ogni valutazione finale sul punto – che l’art. 5 bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, nel suo rinvio ai “casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti”, rechi supporto all’interpretazione opposta a quella che lo invoca al fine di giustificare l’inapplicabilità dell’accesso civico alla materia disciplinata dal Codice degli Appalti.
Invero, il generico riferimento normativo all’”accesso” – comprensivo di quello civico e di quello ordinario – sembra deporre nel senso che il legislatore ha una visione sostanzialmente unitaria dell’istituto dell’accesso, sebbene disciplinandone in maniera diversa le singole declinazioni attuative.
Ebbene, se così è (recte, fosse), la disposizione potrebbe essere invocata proprio al fine di ribadire che le due richiamate discipline in tema di accesso concorrono in ciascun ambito materiale specifico, ferma restando la necessità di rispettare quelle “specifiche condizioni, modalità o limiti” previsti dalla l. n. 241 del 1990: ai quali, però, non sarebbero riconducibili quelli che, come la necessaria legittimazione soggettiva del richiedente, non possono essere trasferiti entro il dominio applicativo dell’accesso civico, senza dare luogo alla radicale negazione dello stesso.

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