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domenica 8 gennaio 2017

La Sentenza della Corte costituzionale sulla legge della dirigenza pubblica: non fu “cavillo”

Non fu un “cavillo” la pronuncia della Corte, pertanto, ad avviso di chi scrive, ma un marchiano “sgarro” alla prassi costituzionale a guidare la mano dell’estensore della Legge n 124 dell’agosto 2015. E' questa una delle conclusioni cui giunge Giuseppe Beato nell'interessante articolo dal titolo La Sentenza della Corte costituzionale sulla legge della dirigenza pubblica: non fu “cavillo”, pubblicato sulla rivista EticaPA. Alla citata conclusione giunge dopo una ricostruzione della giurisprudenza costituzionale consolidata in tema di rapporti tra Stato e Regioni in materie che lo Stato ritenga di attrarre, per ragioni di unitarietà, alla propria competenza amministrativa e di conseguenza legislativa (sentenze della Corte Costituzionale n. 3 del 2003 e n. 6 del 2004).  Le sentenze sopra nominate posero, tuttavia, un vincolo di rilievo costituzionale all’attrazione nella legislazione statale di materie riservate alla competenza concorrente o residuale delle Regioni: l’acquisizione di un’ intesa con le Regioni stesse: “per giudicare se una legge statale che occupi questo spazio sia invasiva delle attribuzioni regionali o non costituisca invece applicazione dei principî di sussidiarietà e adeguatezza diviene elemento valutativo essenziale la previsione di un’intesa fra lo Stato e le Regioni interessate, alla quale sia subordinata l’operatività della disciplina”.

L'articolo si conclude con le seguenti considerazioni:
Tuttavia, va sottolineata una circostanza ancor più significativa: con quel “cavillo” (o quello sgarro) – ammesso lo sia stato - la Corte si è liberata dal compito più penoso di occuparsi in futuro di tutta l’altra serie di “patologie” che rendevano incostituzionale il testo del decreto legislativo sulla dirigenza predisposto dal Governo, così come aveva già rilevato il noto parere del Consiglio di Stato del 14 ottobre 2016. Si è trattato, a convinzione di chi scrive, di una pietosa eutanasia resa dalla Corte Costituzionale a un testo di decreto che avrebbe causato la sicura bocciatura di uno studente universitario del primo anno all’esame di diritto costituzionale.

Al di là delle disquisizioni giuridiche, comunque, rimane sullo sfondo il vero nodo dell’intera questione della dirigenza pubblica italiana: se il dirigente pubblico debba essere in qualche modo “stabile”, oppure se, come fortemente sostenuto dal passato Governo e da tutto un folto mondo di “laudatores” del “modo privato”, debba essere un soggetto assunto a tempo determinato e di fiducia dei politici di turno al potere. L’opinione pubblica italiana è stata fortemente plasmata e convinta da questi “cantori” dell’impresa privata sul fatto che il rapporto di lavoro di un dirigente pubblico debba essere omologato a quello dei dirigenti privati. A nulla, per ora, valgono gli esempi delle Amministrazioni pubbliche degli altri Paesi avanzati, tutte organizzate su corpi di dirigenti stabili (in primis l’Amministrazione federale U.S.A., come illustrato nello studio apparso sull’ultimo numero della nostra rivista “Nuova Etica Pubblica” – vedi qui). Nè a qualcosa valgono i continui scandali che vedono protagonisti personaggi con la qualifica di dirigente, ma entrati in amministrazione senza pubblici concorsi e legati al carro del potente di turno. Una disattenzione intellettuale e politica verso questo tema troppo marcata e ostentata per non tradire un fondo di malafede.

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